Venga L'Oste
Se un giorno vi dovesse capitare di passare per Polverigi e vedere una “banda di matti” chiassosi, vestiti un po' così, inzaccherati e soprattutto non proprio sobri, niente paura, sappiate che stanno giocando all’oste, gioco quest’ultimo che pur assomigliando alla più famosa ruzzola sembra essere un’esclusiva polverigiana.
Dai tempi dei tempi, tutti gli anni, il Mercoledì delle Ceneri, il primo giorno di Quaresima, un gruppo di età variegata e non necessariamente composto dalle stesse persone si raduna nella piazza principale del paesello. Non c’è bisogno di nessuna convocazione o avviso: si sa e basta. Chi vuole partecipare deve presentarsi alle due del pomeriggio, con una boccia al seguito, sul sagrato della chiesa, luogo prescelto per la rituale foto di gruppo prima della partenza.
Ce le ho tutte le foto ma, quella più bella, quella che ogni volta che la guardo mi fa ancora emozionare è tutta stropicciata, ingiallita e sbiadita a tal punto che qualche protagonista ritratto ha assunto le sembianze di un ectoplasma. Ce l’ho attaccata al frigorifero, pronta per essere riproposta sui social e non solo, visto che ne ho fatte tante copie a parenti o amici in ricordo di chi, purtroppo, non c’è più.
È emozionante riguardarla perché ritrae persone che in una maniera o in un’altra hanno lasciato il segno, non solo nel gioco, ma nel cuore e nella memoria mia e del mio paese. Questa foto in particolare è stata scattata a casa di Donzelli dove, per una regola non scritta, si fa la merenda, quella merenda speciale di cui parlerò più avanti. C’è Clemente, carabiniere in pensione, compagno di caccia di mio padre alla pari di Antò el postì, ex postino del paese. C’è mio padre che, nonostante il clima di festa e di baldoria, non si dimentica di starmi vicino, Silvio, detto Bibo, storico barista, zio Italo fruttivendolo/benzinaio dal linguaggio sempre molto colorito, il padrone di casa Neno de Donzelli e l’inseparabile compare Artemio de Roncò, Dario de Roscetto, Paolo de Natalì, Tarcì de Magnalardo. Ci sono io all’età di 12/13 anni, mio cugino Fabrizio sette anni più piccolo di me e che come me fa parte degli aficionados, col padre Riccardo mago dello stoccafisso. C’è Fausto de Renè che ricorderò sempre per una mitica sbornia, zio Gustì, fratello di mio nonno e infine mio nonno. Mio nonno, nonno Marino che, oltre ad essere stato un grande nonno, era il giudice, arbitro salomonico dell’Oste e sempre per quella serie di regole non scritte mi ha lasciato in eredità questo “importante” incarico oltre al suo inseparabile coltellino.
Fin da piccolo lo seguivo per ripercorrerne le orme, come riconoscere il vengo giusto, pianta da cui si ricavano la stecca grande del giudice, su cui si appuntano tutti i tiri fatti, e le stecche più piccole, su cui si segnano le penalità e che ogni giocatore deve portare gelosamente con se cercando di non perderle o farsele rubare pena la sostituzione con una con tante tacche quanti i tiri fatti fino a quel momento. Le tacche sui venghi le incido allo stesso modo e con lo stesso coltellino di nonno che custodisco gelosamente e rispolvero solo in occasione del gioco. Tra le incombenze a cui deve provvedere l’arbitro c’è quella di portare il pallino anzi i pallini perché l’oste si gioca con ogni condizione di tempo e dopo quella volta in cui il pallino bianco si mimetizzò ad ogni lancio nel fondo nevoso, rendendo quasi impossibile continuare il gioco, ho imparato a portarne anche uno di un altro colore. Distribuita la stecca segna-penalità ad ogni giocatore e fatta la foto rituale, si parte, non prima però di aver effettuato il controllo delle bocce. Il giudizio dell’arbitro è insindacabile, non c’è una misura precisa o un determinato peso da rispettare, deve essere solo di gradimento all’arbitro. I veterani saltano il controllo perché generalmente hanno sempre la stessa mentre per i novellini il discorso è diverso. In questo caso il controllo è d’obbligo ma in fondo è solo una banale scusa per farsi dare la boccia che viene lanciata a braccio teso giù per la piazza così da vederli correre a recuperarla.
Il percorso è sempre lo stesso, il primo tiro si fa giù per gli orti, quella che adesso è via Don Minzoni, ci si scapicolla poi per il greppo dei campi da tennis fino ad arrivare alla prima casa, casa Primo de Bianchi, poi giù per via Acquasalata fino a salire in via Baiana che si percorre tutta casa per casa, cortile per cortile, fino a giù da Borsì per poi salire via Brodolini fino ad arrivare di nuovo in piazza.
Il gioco in pratica consiste nell’avvicinarsi il più possibile con la propria boccia al pallino. L’onore del primo tiro spetta al giocatore più anziano. Il “nonno” lo lancia a suo piacimento e poi, sempre a suo piacimento tira la boccia per cercare di avvicinarla il più possibile.
Fino a qui sembrerebbe un normalissimo gioco di bocce ma non è così perché oltre al fatto che il percorso segue la morfologia del territorio, quindi si tira anche se il terreno è in forte salita o discesa, su strada o sui campi, se c’è fango o la polvere, lo si gioca solo in forma individuale e ci sono inoltre una serie di regole ben precise ed esclusive che vanno rispettate altrimenti…….tacca.
Il primo giocatore può decidere di tirare la boccia come vuole, può capitare di vedere un tiro sottomano o sottogamba piuttosto che in rovesciata, con piroletta o ancora su una gamba sola, disteso, con capriola e chi più ne ha più ne metta e il giocatore successivo, che deve essere chiamato a voce alta appena la boccia si stacca dalla mano, deve tirare allo stesso modo di chi l’ha preceduto fino ad arrivare all’ultimo che, non avendo altri da chiamare, deve gridare a gran voce venga l’oste. L’oste altri non è se non il padrone della casa davanti a cui si sta svolgendo il gioco, il quale si presenta con l’immancabile fiasco di vino in mano e spesso offre un piccolo rinfresco per aiutare il vino a scendere meglio.
Tutti sono OBBLIGATI a bere altrimenti……..tacca, e, visto che le case sono tante e dove non ci sono le case l’oste è sostituito da un “portafiasco” in persona alla fine del gioco non si arriva propriamente sobri.
Devo aprire anche la parentesi della sbornia di Fausto de Renè. Mamma mia che pezzo di ciucca. A ricordarla adesso suscita le migliori risate anche se quel giorno Fausto ci aveva parecchio spaventati. Se è vero che, dopo l’ennesimo bicchiere, iniziando a svalvolare con le sue battute ci aveva fatto letteralmente scompisciare dalle risate, è pur vero che quando ha collassato rischiando il coma etilico, ci ha fatto pensare al peggio. Ma lui, imperterrito, dopo l’intervento risolutore del dottor La Rocca si è presentato a cena pronto a ricominciare come se niente fosse.
Come se non bastassero tutti i bicchieri offerti dai vari osti, ad alzare il tasso alcolemico contribuisce notevolmente l’immancabile merenda a casa Donzelli. Merenda che, come da tradizione, essendo il primo giorno della quaresima pasquale, deve escludere la presenza di carne. Ecco allora che sul tavolo apparecchiato dentro la cantina, al profumo antico di rovere e mosto si mischia quello dei sardoni sotto sale e sott’olio, delle olive, del formaggio pecorino e dell’immancabile ciambellò da inzuppare nel vino roscio. Se fino al momento della merenda il gioco sembra avere una parvenza di serietà, dopo diventa una baraonda vera e propria. Il vino fa alzare la temperatura, si inizia a vedere doppio e le bocce iniziano a prendere strane traiettorie tant’è che piuttosto che guardare chi si avvicina più al pallino, bisogna fare attenzione che una di queste non finisca in testa a qualcuno.
Ogni volta che il giudice deve segnare una penalità a colui che non rispetta una regola o a uno dei quattro che più si allontana dal pallino, è una guerra e, considerando che gli ultimi tiri si fanno praticamente in notturna, il più delle volte chi deve presentarsi dal giudice per la tacca sulla stecca riesce a farla franca. L’ultimo tiro si fa a casa de Fernà dove, fino a poco tempo fa, si poteva degustare il famoso fragolino della sua personale cantina. Da qui poi si parte per affrontare l’ultima salita, quella che, dopo le fatiche del lungo pomeriggio, per qualcuno è paragonabile all’ascesa al monte Bianco.
E, mentre il silenzio della serata viene rotto dagli stornelli cantati a squarcia gola dai superstiti del gioco, si arriva in piazza per l’immancabile bicchiere della staffa al bar centrale.
Si proclama il vincitore che è colui che ha messo meno tacche. Si corre o meglio ci si barcamena a casa per una doccia, che si spera rigenerante, per poi ritrovarsi di nuovo tutti insieme per la cena.
La cena è aperta anche a chi non gioca e il menù prevede la degustazione del primo piatto a base di ciavattoni e del favoloso stoccafisso di zio Riccardo cucinato, secondo la tradizionale ricetta anconitana, su un letto di canne e di patate. A chi gli chiede perché nella pentola c’è tanto olio, lui solitamente risponde così: – lo stoccafisso da vivo nuota nel mare e da morto deve notà nell’olio –.
Dimenticavo, il premio del vincitore? Niente. Non ci sono premi e non c’è nemmeno un albo d’oro.
Il premio più bello è vedere il sorriso di tutti e sperare che sia come quello che spicca sul volto di quella banda di matti immortalati nella foto stropicciata ed ingiallita attaccata al mio frigo.
Venga l’osteeeeeeeeeee!!!!!!!!!!!!!